Marchionne risponde alla stampa: ecco la vera storia su Fiat

Pagina aggiornata il 4 Aprile, 2024

Unione Industriale di Torino, durante l’Assemblea Generale delle aziende associate.
Ecco la risposta di Sergio Marchionne:

Non avevo intenzione di intervenire, per non interferire con i lavori dell’assemblea e con la celebrazione di oggi.
So bene che quando ci si porta dietro qualcosa che ha il peso e l’ingombro di un orso – com’è Fiat – si rischia di rovinare la festa.
Ma dopo aver letto i giornali di ieri, a commento dello scambio di opinioni piuttosto franco che c’è stato sabato con il Governo, ho chiesto a Licia di concedermi qualche minuto questa mattina per mettere le cose in chiaro.

Tutti i giornali hanno pagine piene di articoli su Fiat, sulle attese, sul faccia a faccia col Governo e altri temi di varia natura.
Anche la televisione ha svolto il suo ruolo, contando persino quanti caffè abbiamo bevuto John ed io, e, in apparenza altrettanto importante, dove li abbiamo presi.

Sulla prima pagina de “La Repubblica”, Eugenio Scalfari ieri ha scritto:

Nessuna delle due parti sedute al tavolo di Palazzo Chigi – a quanto si sa – era sulla difensiva. Ciascuna aveva richieste da porre all’altra, soprattutto il Governo perché l’inadempiente in questo caso è la Fiat e non il Governo”.

Ho scelto lui, ma avrei potuto portarvi altri esempi.
Scalfari vince per età.
Affermazioni come questa, se ripetute costantemente, rischiano di sembrare vere, anche se non lo sono.

Credo che questa sia la sede più adeguata a spiegare come stanno le cose, perché voi – esattamente come noi – gestite delle imprese e dovete fare i conti con la competizione ogni giorno.

La nostra non è competizione politica, non siamo a caccia di voti, non organizziamo né partecipiamo a raduni elettorali o feste in maschera, non siamo un movimento populista, con baci, abbracci, foto di gruppo da Vasto. Non abbiamo nessuna coalizione di minoranza a garantirci la poltrona.
Ma soprattutto, non esprimiamo opinioni su argomenti che non conosciamo e che non sono di nostra competenza.
Siamo soltanto noi nei mercati.
Un rapporto diretto, difficile, a volte ruvido, ma assolutamente semplice nel suo schema di fondo.

Allora ecco la vera storia recente sulla Fiat in poche slides, su come stanno i mercati, su come sta l’azienda, su cosa stiamo facendo e sulle nostre alternative per il futuro.

I risultati della prima metà dell’anno mostrano come Fiat è in ottima salute, anche se dopo la scissione non può più contare sull’apporto di Fiat Industrial.

  • I ricavi sono saliti a circa 42 miliardi di euro.
  • L’utile della gestione ordinaria è stato di 1,9 miliardi.
  • L’utile netto è di oltre 700 milioni.
  • L’indebitamento netto industriale a fine giugno era di 5,4 miliardi di euro.
  • Ma è anche importante l’alto livello di liquidità di cui disponiamo, pari a circa 23 miliardi di euro.
  • L’azienda ha una presenza pressoché globale, che si estende dall’Europa al Nord America, dall’America Latina all’Asia.

I risultati del primo semestre sono totalmente in linea con i nostri obiettivi per l’anno. Prevediamo, infatti, di chiudere il 2012, con:

  • ricavi superiori ai 77 miliardi di euro,
  • un utile della gestione ordinaria compreso tra 3,8 e 4,5 miliardi, che rappresenta il risultato più alto nei 113 anni di storia di una Fiat che includeva la Fiat Industrial,
  • un utile netto tra 1,2 e 1,5 miliardi di euro,
  • un indebitamento netto industriale tra 5,5 e 6 miliardi,
  • e una liquidità superiore ai 20 miliardi.

La verità è che non siamo malati.
La Fiat, nel suo insieme, è sana e in ottima forma.

Nelle prime righe del romanzo “Anna Karenina”, Tolstoj scrisse:

Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro;
ogni famiglia infelice è infelice a modo suo
”.

Chiunque operi nel settore dell’auto oggi in Europa sta sperimentando diversi gradi di infelicità.
Ognuno sta soffrendo le pene dell’inferno a modo suo.

Il mercato europeo dell’auto è un disastro.
Si è infilato in un precipizio che non sembra avere ancora toccato il fondo.
Le previsioni più recenti indicano che quest’anno la domanda di auto in Europa non andrà oltre i 12,5 milioni di unità, il secondo livello più basso in vent’anni.
L’andamento nei cinque mercati più importanti d’Europa – Italia, Francia, Regno Unito, Spagna e Germania – è ai livelli minimi storici, come non si vedevano da circa trent’anni, Germania a parte.
E le prospettive sono tutt’altro che rosee.

Facciamo un salto indietro.
Era l’aprile del 2010 quando abbiamo lanciato il progetto Fabbrica Italia, con una certa enfasi e un certo clamore.
Abbiamo anche acquistato alcuni spazi pubblicitari sui giornali e in televisione, orgogliosi di poter coinvolgere il Paese nel processo di ricostruzione della base industriale italiana.
La situazione dei mercati, allora, era relativamente decente e ci si aspettava che a metà del decennio tornasse ai volumi pre-crisi.

La nostra avventura con Chrysler negli Stati Uniti avrebbe compiuto un anno di lì a poco.
Ci sentivamo fiduciosi nel processo di turnaround avviato oltreoceano, e sapevamo di poter contare sull’aiuto di un mercato in ripresa e sulla forza del team di leadership che era al lavoro.
Poi si è scatenato l’inferno.
Abbiamo scoperto, tutto d’un tratto, che l’Italia era nei debiti fino al collo, che avevamo il terzo debito pubblico più grande del mondo, che il Paese era a corto di fondi, che gli spread stavano prendendo il volo.
Avevamo bisogno di qualcuno che mettesse a posto le cose, un gruppo di tecnici che ci portasse fuori dal nostro disastro.

Non eravamo i soli a condividere questo destino.
Anche la Grecia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo si trovavano in una situazione simile, ma noi eravamo quelli grandi e difficili da ignorare.

Così ci siamo mossi.
Ne siamo usciti grazie alla brillante esecuzione di un solo uomo, Mario Monti, che è stato capace di ricreare un clima di fiducia verso il nostro Paese e a riguadagnare la credibilità internazionale.
E’ riuscito a convincere i suoi colleghi europei, ad appoggiarsi alla Banca Centrale Europea, ad avviare importanti riforme strutturali e a scongiurare il rischio di default.

Ma tutto ciò ha avuto delle conseguenze.
Per l’Italia, come per gli altri Paesi europei, le prospettive economiche sono totalmente cambiate.
In particolare, i volumi del mercato dell’auto hanno intrapreso una spirale discendente, che in Italia ha raggiunto il punto più basso degli ultimi 33 anni.
Ad agosto, abbiamo toccato un nuovo record negativo: la domanda italiana è crollata ai livelli del 1964.

Il tono delle previsioni, col passare del tempo, continua a diminuire di qualche nota.
Questa è di Global Insight, ma non è che un esempio fra tanti.
Nel 2012 ha già modificato le sue stime al ribasso tre volte.
Queste previsioni condizionano la Fiat e le sue scelte.
Non sono belle, nè rosee, né ottimistiche.
Ma sono la realtà.

La nostra Fiat si trova sulla stessa barca di tutti gli altri costruttori, tanto i produttori di massa quanto i marchi premium, come dimostrano i casi di Porsche e Mercedes.
C’è chi ha annunciato chiusure di stabilimenti, chi sta contando l’entità delle perdite, chi taglia gli investimenti, chi ha lanciato profit warning e chi chiede aiuti al Governo.

Finalmente, però, sta venendo a galla il vero problema.
Non siamo più soltanto noi della Fiat a parlarne.
Ora anche gli altri produttori si stanno accorgendo che è necessario affrontare l’handicap che storicamente e in modo cronico grava su questa industria: l’eccesso di capacità produttiva.

Come se non bastasse, tra aprile 2010 e ottobre 2011, Fiat ha ricevuto una raffica di richieste dalla Consob, 19 lettere in cui si chiedevano i dettagli finanziari e tecnici su Fabbrica Italia, un vasto piano strategico, nuovo, coraggioso, di lungo periodo, che aveva l’obiettivo di aiutare il Paese, cambiando l’approccio e una serie di relazioni storiche che aveva ingessato lo sviluppo del nostro Gruppo.
Giunti all’esasperazione, abbiamo emesso un comunicato – era l’ottobre dell’anno scorso – ritirando Fabbrica Italia e indicando chiaramente che non avremmo mai più usato quella dicitura né fornito informazioni sull’entità degli investimenti o sui tempi.

La ragione è semplice.
Fabbrica Italia era nata con una prospettiva diversa.
Era un progetto pensato e promosso per favorire la coesione sociale di tutti gli attori coinvolti, in modo da far compiere una svolta significativa alla nostra rete industriale, e di farlo insieme, in modo compatto.
Era un progetto disegnato per contribuire alla soluzione dei problemi industriali dell’Italia ed al suo futuro sviluppo.

Poi, all’improvviso, è diventato un obbligo. Anche per la Camusso che parla molto di diritti e poco di doveri.

Non esiste alcun amministratore delegato al mondo che, considerato lo stravolgimento che c’è stato nell’economia e nelle previsioni di mercato che stavano alla base del piano, l’avrebbe visto come un obbligo.
Oserei anche dire che non c’è giurisdizione civile al mondo che l’avrebbe considerato in tal modo.

Chiunque gestisca un’azienda, sa che gli indirizzi strategici devono essere modificati e adeguati ai movimenti dei mercati.

Nel 2004, abbiamo salvato la Fiat dall’estinzione perché ne abbiamo cambiato la struttura organizzativa e la cultura. Abbiamo risolto i nostri problemi interni e abbiamo abbracciato la sfida della competizione.

Lo abbiamo fatto anche nel 2009, prendendo una Chrysler in bancarotta ed emotivamente a pezzi e rendendola di nuovo un’azienda viva e di successo.
E stiamo cercando di farlo ancora una volta, oggi, nel nostro Paese, proponendo un’alternativa credibile alla riduzione degli organici e alla chiusura delle fabbriche, offrendo una speranza concreta e un modello diverso da quello che qualunque libro di economia indicherebbe come l’unico possibile.

A volte mi pare che fare business in questo Paese sia una fatica di Sisifo.
Ci mettiamo il massimo dell’impegno per scalare la montagna di difficoltà e di problemi che chi gestisce un’azienda in Italia si trova di fronte, ma quando stiamo per raggiungere la cima, ci sono sempre nuove forze e nuovi pesi a trascinarci verso il basso. E ogni volta, dobbiamo ricominciare tutto da capo.

Lo ha sintetizzato in maniera molto puntuale un articolo del Sole 24 Ore di ieri, parlando delle dieci zavorre che schiacciano l’industria italiana e che indeboliscono la competitività di tutto il sistema manifatturiero, non solo della Fiat.

Siamo il Paese in cui sulle imprese gravano le tasse più alte d’Europa, la giustizia più lenta, l’elettricità e il gas più cari, la burocrazia più contorta.

Alla lista delle inefficienze si aggiungono infrastrutture che sono tra le peggiori d’Europa, pratiche per l’export tra le più difficili, un costo del credito tra i più elevati, la piaga della corruzione.
E siamo, ovviamente, gli ultimi per produttività.
Le condizioni per accedere ad un finanziamento non sono grandiose.
Il credit default swap della Fiat è stato fortemente condizionato da quello dell’Italia negli ultimi venti mesi.
Questo succede nonostante i flussi di reddito della nostra azienda abbiano raggiunto un’ampia diversificazione geografica.

Essere considerati italiani, nel business, non aiuta.
Nonostante tutto ciò, di fronte all’evidenza dei fatti, siamo tutti in attesa del miracolo.
Speriamo che qualche costruttore straniero venga ad investire nel nostro Paese e a risollevarne le sorti.
Forse perché nella nostra storia abbiamo subito più di un’invasione e ogni volta ci siamo illusi di aver trovato il salvatore.

Ho qualche notizia da darvi.
Negli ultimi otto anni e mezzo ho cercato costantemente, in ogni modo, di coinvolgere un partner nelle nostre attività in Italia.
Non ho avuto successo.
Dichiaro il mio completo fallimento.
Non c’è nessuno che voglia accollarsi anche una sola delle zavorre italiane.
Vorrei essere chiaro su un punto.
Non sono i lavoratori, non è la nostra gente il problema.
Il sistema lo è.

Non sarò certo io a deludere quelli che inneggiano ad un intervento della Volkswagen.
Per quanto mi riguarda, dò loro il benvenuto come produttori in questo Paese e farò tutto il possibile per facilitare il loro ingresso.
Ben venga uno stabilimento Volkswagen nel nostro Paese.
Ma a quelli tra di voi che sono sul libro paga di Wolfsburg, chiedo gentilmente di ribadire ai vostri proprietari tedeschi un concetto semplice e chiaro: l’Alfa Romeo non è in vendita.
Ho pensato di dirvelo in piemontese per rendere efficace il senso di quello che intendo.
E vi chiedo già scusa per la pronuncia:

Monsù Piëch, lassa perde, va canté ‘nt n’àutra cort!”.

Per raccontarvi tutta la storia, sembra che Piëch abbia detto che non hanno fretta e che per ora Fiat non è ancora abbastanza malconcia. Quando lo sarà, allora lui si prenderà l’Alfa.
All’agenzia di stampa Reuters ha dichiarato:

Siamo pazienti e abbiamo tempo. Non ne sentirete parlare prima di un paio d’anni”.

Poco prima di lui, un dirigente della Volkswagen aveva dichiarato che

se uno dei piani-chiave di Marchionne vacilla, saremo là a raccoglierne i pezzi”.

Le “spacconate” dei tedeschi non mi sorprendono.
Quello che trovo stupefacente è che noi, in questo Paese, abbiamo perso ogni barlume di orgoglio nazionale.

Proprio ora che abbiamo trovato in Chrysler un alleato tecnico per sostenere gli investimenti necessari al rilancio dell’Alfa, che garantisce accesso alle necessarie piattaforme, e con volumi sufficienti e un mercato adeguato, continuiamo invece a insistere perché Fiat ne ceda la proprietà.
E solo per assecondare una fissazione per le marche straniere.
Tutto ciò è semplicemente folle.

Vorrei lasciarvi con un’ultima considerazione.
Dobbiamo capire che ci troviamo in una fase di discontinuità storica.
L’epoca in cui viviamo, i problemi che dobbiamo affrontare, ci collocano ad un bivio e rendono le nostre scelte ancora più cariche di significato.

La scelta che si impone oggi è tra sposare una cultura della competizione e portarci al passo col resto del mondo, oppure restare a casa, rassicurati dall’abitudine di lasciare tutto com’è, confortati dall’illusione che prima o poi ci risolleveremo.
La scelta è tra sporcarsi le mani in un campo aperto oppure difendere lo status quo, quello che per gli ultimi vent’anni ci ha condotti ad un lento e inarrestabile declino industriale.
Abbiamo già perso troppi anni di produttività, di competitività e di benessere per i nostri cittadini.

Smettiamola di credere ai falsi profeti.
I super-eroi non esistono.
Esiste invece il lavoro di tutti i giorni, quel lavoro su cui è fondata la Repubblica Italiana.
Esiste l’impegno di persone che non si rassegnano alla decadenza.
Esiste l’orgoglio di una nazione che vuole dimostrare di essere all’altezza della propria storia.
Questi sono gli unici valori reali su cui ripartire e far ripartire il Paese.
E nulla al mondo li può sostituire.

Anche la Fiat si trova ad un bivio.
La nostra scelta è tra ridurre la capacità produttiva e licenziare migliaia di dipendenti, con danni incalcolabili per il tessuto sociale italiano, oppure cercare – insieme alle nostre persone – di sfruttare le competenze che abbiamo, la nostra conoscenza di prodotto e di processo, il livello tecnico dei nostri impianti, per aprirci la strada verso i mercati esteri.

Non dico che la seconda alternativa sia priva di rischi, e di sicuro non è né facile né garantita.
Ma è l’unica strada possibile per evitare una catastrofe.
Come sempre avviene nei momenti cruciali della storia di una comunità, anche ora c’è bisogno che questo diventi un progetto condiviso, verso cui indirizzare le energie e il contributo di tutti.

Il Governo deve fare la sua parte per rimuovere quelle zavorre che stanno ancorando il nostro Paese al passato.
Dobbiamo ricordarci che abbiamo davanti un’Italia che è ancora tutta da ricostruire.
Non ci sono ricette segrete se vogliamo lasciare ai nostri figli un futuro che sia all’altezza delle nostre aspettative di crescita industriale, sociale e civile.
Niente che non si chiami volontà, impegno e lavoro.

Vorrei rileggervi le parole che Einstein usò per riflettere su un’altra grave crisi, quella del ’29.
Restano una grande lezione per tutti:

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.
La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.
La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura.
E’ nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni.

La vera crisi è la crisi dell’incompetenza.
L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie d’uscita.
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c’è merito.
E’ nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono lievi brezze.
Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo.
Invece, lavoriamo duro.
Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla
”.

Questo è un invito da tenere a mente, facendo tesoro delle esperienze passate.

Negli ultimi otto anni abbiamo affrontato ogni imprevisto, abbiamo superato crisi interne ed esterne.
Nel 2004 abbiamo curato i nostri mali interni, nel 2008-2009 abbiamo fatto i conti con il disastro finanziario generato negli Stati Uniti e con gli effetti che ha provocato sull’economia reale di tutto il mondo.
Abbiamo gestito con responsabilità le conseguenze del crollo dei mercati e l’impatto che ha avuto sulle nostre imprese e sui nostri lavoratori.
Lo abbiamo potuto fare perché c’è sempre stata una parte del sistema – la parte che in quel determinato momento era più forte – che ha lavorato per permettere a quella più debole di risollevarsi e andare avanti.

Le crisi possono cambiare natura e Paese – ieri negli Stati Uniti e oggi in Europa – ma quello che non cambia è la nostra capacità di serrare le fila.
Se c’è un valore nella leadership oggi è quello di chiudere il cerchio e sentirsi parte di una comunità più ampia e di un disegno più grande.
Dobbiamo agire e pensare come un unico gruppo di persone che vogliono andare tutte nella stessa direzione.

Sede Fiat Torino
Fiat Torino

Concludo confermando l’impegno della Fiat verso questo Paese.
Come la più grande impresa privata italiana, faremo tutto il possibile per contribuire alla risoluzione dei temi in agenda.
E a Licia Mattioli confermiamo il nostro impegno, nel nostro piccolo, a sostenerla nel suo nuovo incarico.
Buon lavoro a tutti noi.

(Fonte Fiat Spa)

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